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Home » Ragusa: il saluto antico è Sabbinirica a Vossia: la storia e il significato

Ragusa: il saluto antico è Sabbinirica a Vossia: la storia e il significato

Oggi riscopriamo un Saluto Antico

Redazione by Redazione
3 Febbraio 2025 - Aggiornato alle ore 15:49 -
in Attualità
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Ragusa: il saluto antico è Sabbinirica a Vossia: la storia e il significato

Ragusa: il saluto antico è Sabbinirica a Vossia: la storia e il significato

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Ragusa – Oggi riscopriamo un Saluto Antico. Il Saluto Antico è “Sabbinirica a Vossia“; un saluto utilizzato sino agli anni ’50-’60 dai Nostri Antenati Siciliani (Nonni, Bisnonni ecc.…). Questo Saluto si usava in tutti i momenti della giornata, specialmente la mattina o quando ci si incontrava per strada; esso esprimeva una forma di Benedizione.

A questo Saluto si rispondeva solitamente con: “Santu e Riccu!” (traduzione: “Che tu sia santo e ricco!”).

Ai giorni nostri corrisponde all’attuale Buongiorno o Ciao!!! 🙂

Il ricordo del nonno Turiddu e il sabbenerica” mai negato ad alcuno…

Era l’ultima settimana di luglio e avevo salutato nonno Turiddu e più ci penso più mi rendo conto che è corretto dire “quel giorno conobbi meglio mio nonno”…

Quando mio padre nel 1963 lasciò il suo quartiere per creare una nuova famiglia e andare a vivere nel quartiere nuovo in Corso Italia, in alto vicino alla “Chiesa nova…” (Chiesa di Maria Ausiliatrice dei Salesiani).

Il trasferimento di mio padre, per i parenti e gli amici, fu un vero tradimento, poiché allora abbandonare il proprio quartiere “gli Archi” per andare a vivere nella città nuova Ragusa superiore, era una vera emigrazione…, Scegliendo di vivere altrove, mio padre inevitabilmente prese le distanze dalla realtà che lo aveva visto crescere.

Non ho mai riflettuto su quanto questo cambiamento avesse influito sui legami della nostra vita familiare. Legami forti e saldi che comunque si sono mantenuti e sono cresciuti, legami che di speciale avevano soprattutto quello che non si dice, che si dà per scontato, che è naturale. Un legame che sai che c’è e basta, che si nutre della stessa sicurezza che emana: un legame di famiglia.

Forse per questo e per l’interminabile scorrere delle ore degli ultimi giorni di villeggiatura del mese di luglio nella nostra casa di mare, il bagno nei miei ricordi mi è sembrato un’immersione in acque nuove e sconosciute, dove l’eccesso emotivo ha prodotto sorrisi e lacrime allo stesso modo, un bagno a metà fra che ciò avevo vissuto e ciò che mi ero perso perché lontano, perché distante, ma che tuttavia mi ha permesso di immaginare oggi che il tutto era soffrire, era andare.

A quel tempo quando si andava a trovare il nonno nel quartiere natio di mio padre (San Paolo…) io, che sarò stato un bambino un po’ rompiscatole e con addosso un musone da portare imbarazzo ai miei genitori che cercavano di giustificarmi con imbrodabili supposizioni…, dimostravo spudoratamente di non essere felice durante quelle visite domenicali. Non saprei dirlo, ma so che le visite più piacevoli, sono state quelle in cui io insieme al nonno le combinavamo grosse.

Uno di questi episodi fu quando cambiai la disposizione dei quadri del soggiorno (destando turbamento nella nonna Marianna…) con la complicità del nonno.

Nella casa in cui vivevano i nonni c’era una stanza per piano, e salire fino all’ultimo era una conquista rara per me. All’ultimo piano vi era un lettone che sembrava avvolto da un velo di mistero e grandezza agli occhi di un ragazzino impudente ma sensibile… quella stanza sembrava l’interno di una nave dei pirati con quel baule grande e chiuso ermeticamente da un catenaccio degno di un forziere del Capitano Nero… (in quel periodo leggevo molto… il mio autore preferito era Salgari).

Poi era subentrato prorompente il mese di agosto, era il 5, giorno del mio compleanno, arrivai con i miei genitori di mattina intorno alle 10, in una calda e umida giornata e , finché non fummo  tutti i parenti, non sarebbe iniziata la festa… (il nonno ci teneva tantissimo festeggiare il mio compleanno… mi chiamavo come lui “Salvatore”).

Il nonno era già pronto da parecchio tempo: alto, magro, i capelli bianchi (pochi in verità), gli zigomi alti e salutarlo era come scontrarsi in pista da ballo, il naso lungo che mio padre ereditò smussato e che anch’io presi infine misurato (ne riconosco il tratto slanciato, bello, oserei dire importante). Arrivati a casa dei nonni, trovammo il nonno mentre in Tv ascoltava il concerto di musica classica che amava, stando seduto su una poltrona in cui nessuno osava sedersi.

Lui era pronto da un bel po’: appena sentiva il rumore della macchina si affacciava dal balcone, poi ci accoglieva con un sorriso di felicità; spariva per un attimo e ricompariva con aria compiaciuta, finché non tirava fuori le banconote da 5 mila lire e ne dava una per nipote, indistintamente… ma per il mio compleanno usciva per me una grande banconota da diecimila lire… (una gioia indescrivibile…).

Non parlava molto, ma di certo osservava tanto: interveniva quando bisognava soprattutto quando noi ragazzi importunavamo la nonna che già da un po’ aveva smesso di ricordare, di riconoscere, di dialogare con tutti noi. Anche quando si “armava” al gioco delle carte, il nonno prendeva posto silenziosamente e agiva da intenditore, poiché trascorreva ogni giorno i pomeriggi al circolo G.B. Odierna vicino alla chiesa de “Le anime del purgatorio”. Certo, lo scopone richiedeva un’abilità non da poco e si arrabbiava se sbagliavi a giocare la tua mano. Il suo tono rauco e profondo non era mai eccessivo, rimaneva pacato. Non ricordo di averlo mai visto seriamente arrabbiato, se quando era veramente necessario.

Era saggio proprio in virtù di questo silenzio, come chi ha vissuto a pieno un’esistenza costellata di cose e persone: la barberia, il motorino, la vita sociale tra i coetanei, le tradizioni impresse nella memoria del cuore, il rispetto espresso in quel sottile “sabbenerica” mai negato ad alcuno.

Ricordo che nell’ultimo periodo della sua esistenza non volle più frequentare il circolo perché sentiva le forze lasciarlo, e sì caro nonno… tu lo sapevi che stava arrivando il momento di andare, quando hai chiesto la pizza per un’ultima volta e ti arrabbiasti per quel mancato appuntamento di una domenica di qualche mese prima di lasciarci per sempre… Con il cuore lacerato come l’asfalto consumato e mille e più preghiere in testa, sono venuto a salutarti, senza quell’angoscia che ci prendeva negli ultimi tempi quando andavamo via e inevitabilmente ci domandavamo se fosse stata l’ultima visita.

Sei stato coraggioso, eri pronto anche quel venerdì, nonostante le lacrime, unico segno di paura e commozione quando le parole sono diventate troppo difficili da pronunciare. Solo un uomo come te poteva trovare il coraggio di amare in eterno, di creare un forte legame tra di noi per quasi 60 anni; con la nonna Marianna hai formato una grande famiglia come sono grandi le famiglie al sud, insieme siete stati punti di riferimento ed esempio: il nonno mi ha insegnato la lezione più grande mostrandomi come l’amore vada oltre la vita stessa, vada oltre l’esserci. L’amore che accudisce e risana le ferite, l’amore che condivide il dolore e lo supporta, l’amore che nella longevità è capace di schioccare baci forti e privi di vergogna, questo amore che sei stato in grado di coltivare e possedere, come il dono più prezioso, come la ricchezza più grande.

Sei stato padre, il padre di mio padre e pertanto mi ha lasciato in eredità un nome e un cognome che mai come oggi sono fiero di portare, perché ne ho riscoperto l’identità più profonda, sancita da quel gesto sincronico di quanti, durante i funerali, al tuo passaggio in piazza hanno calato la coppola dalla testa e hanno abbassato lo sguardo, certamente dicendo in silenzio “Sabbenerica Vossia”, e tu che la coppola ce l’avevi accanto perché non volevi andare via senza, avrai risposto “Sabbenerica”.

L’ultimo saluto… e il ringraziamento

E allora che tu sia benedetto nonno, ora e sempre, benedetto da noi tutti, benedetto tra gli angeli del cielo; che tu sia benedetto accanto al Padre, là dove non serve nemmeno respirare e nel cuore di chi hai protetto per restare… e ora anche se in vita non te l’ho detto mai… Sabbenerica Nonno caro!

Per saperne un po’ di più sul detto Sabbenerica…

Non solo un saluto, ma anche una forma di rispetto e di augurio, in esso vi è racchiuso un mondo, una cultura: religiosità, rispetto, distanza sociale, sudditanza

Sabbinirica, o Assabinirica oppure “Vossia binirica” o “Vo’scenza binirica non è un semplice saluto, è molto di più. Le origini etimologiche più accreditate di tale formula di saluto sono quelle che la fanno risalire all’arabo “As-Salam, soprattutto per l’assonanza. E’ una forma di saluto rivolta solitamente a persone anziane o che hanno una certa autorità. Un saluto utilizzato sino agli anni ’50 – ’60 dai nostri nonni, bisnonni etc … Molte sfaccettature si intravedono subito nelle varie formule: Ssabinirica o Assabinirica = “Ella mi benedica, o vossia (mi) benedica” Vossia s’abbinirica = “Vostra signoria (mi) benedica” Voscenza s’abbinirica = “Vostra eccellenza (mi) benedica”

“Assabinirica” era il saluto che rappresentava il massimo del rispetto portato verso la persona da salutare. Lo usavano i più giovani per salutare “lu tata, la matri, lu tataranni, la mammaranni“, il padre, la madre, i nonni e i parenti più grandi; oppure lo usava il figlioccio verso il padrino. Il figlio, come segno di rispetto, doveva dare del “vossia” (voi) ai genitori, ma anche ai fratelli più grandi. Ma “vossia” lo usavano soprattutto i meno abbienti quando salutavano una persona di riguardo.  Così fino agli anni ‘50, nonostante la caduta del feudalesismo in Sicilia risalisse al 1912, si usava ancora dare del “Voscenza binirica” (Vostra eccellenza mi benedica), quel saluto di sudditanza che il contadino o la persona di basso ceto dava al padrone o a chi stava più in alto nella scala sociale. Al ricco borghese come titolo si attribuiva il “don”, da dominus, (maestro, padrone) prima del nome, e il “voi” come segno di distinzione; la moglie era chiamata “donna”, per la stessa radice, da domina.

Quando per strada si salutava una persona di riguardo, era doveroso alzare il cappello o il berretto e fare un leggero inchino dicendo: “servu sò” oppure “servu di voscenza”. Lo stesso succedeva se la persona di riguardo era affacciata al balcone; si salutava “scappellandosi”. Ma se al balcone era affacciata una signora di nobile casato o soltanto benestante, uno del popolo, che passava di sotto, salutava senza alzare lo sguardo per non essere troppo sfrontato! Notare come a salutare dalla strada erano quelli col cappello, quindi solo gli uomini. Le donne in casa, al massimo al balcone, ma se benestanti.

Quando si incontravano persone di pari “merito” già le cose cambiavano e allora “salutamu” oppure “baciamu li manu”. E qui ci sarebbe da divagare! Ma rimaniamo nella ricerca. Altra espressione siciliana era “Voscenza”, derivante dalla voce spagnola “vuestra excelencia”, ovvero “vostra eccellenza”. Si tratta dunque di un titolo utilizzato in Sicilia, specialmente nell’uso parlato, per rivolgersi a persone di riguardo e/o prestigio come, per esempio, nell’espressione: – “Voscenza mi perdoni se la disturbo, ma ho urgenza di parlare con lei”. Nella collezione degli elogi: “‘Minenza” (Eminenza), Vossignuria” (Vostra Signoria).

Per le persone appartenenti all’ultimo gradino della scala sociale si usava il “gnuri ” per l’uomo e “gnura” per la moglie, forse “signuri” o “signura” potevano far montare loro troppo la testa.I lavoratori giornalieri, gli antenati degli stagionali di adesso, o peggio dei migranti in nero, che non avevano alcuna specializzazione nel lavoro, venivano chiamati col loro nome di battesimo. Se poi si fosse andato avanti con l’età si sarebbero meritati il titolo di “zu” e “za”.  Così c’era “u zu Vicenzu” o “a za Mimma”. Forse prima c’era più rispetto? Forse!? Non sono certo le parole ma quello che c’è dietro e intorno ad esse a fare la differenza.

La poesia Assabbinirica incorniciata presso il circolo “G. Odierna” ad Ibla che frequentava il nonno…

Assabbinìrica

Quann’eru nicu la cosa chi cchiù ri tutti sèntiri mi piacìa, era quannu assabbinìrica me patri a me nonna ci ricìa.

Lu sensu bonu di stà pàrola nun la capìa, ma a me nonna tantu cuntènta la facìa.

A tempi antìchi lu rispèttu era cchiù forti, e lì vicchiarèddi anchi scarsi l’amàvi finu a la morti.

Avìlli rintra unn’era un pisu, ti ràvanu cunsìgghi e mittìanu lu surrìsu.

Cù lu tempu càpivi chi era ‘na biniriziòni, e chi a cú la ricivìa ci rava prutiziòni.

Quantu addisiàssi sèntimi diri ancora ‘na vota di me nonna binirittèddu, picchì mi fàcia sèntiri ‘mpurtànti, amàtu e beddu.

Ci sunnu così chi ti fannu sèntiri ciàvuru di casa, assabbinìrica avi lu stessu sapùri di ‘na vucca chi ti vasa.

È pròpriu veru chi ci sunnu così chi ti porti ‘nta lu cori, di quannu nasci finu a quannu mori.

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