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Home » Coronavirus: test sierologici, Tar Lombardia boccia intesa S.Matteo-Diasorin

Coronavirus: test sierologici, Tar Lombardia boccia intesa S.Matteo-Diasorin

Adnkronos by Adnkronos
9 Giugno 2020 - Aggiornato alle ore 17:32 -
in Salute e benessere
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Coronavirus: test sierologici, Tar Lombardia boccia intesa S.Matteo-Diasorin
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Milano, 9 giu. – Il Tar della Lombardia ha accolto il ricorso di Technogenetics contro l'accordo tra Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia e l'azienda italiana Diasorin sui test sierologici. Nella sentenza, si legge, "il Tar accoglie il ricorso e per l'effetto annulla la determinazione n 5/D.G./0277 del 23 marzo 2020 e l'accordo ad essa connesso". Il tribunale amministrativo regionale condanna inoltre San Matteo e Diasorin, "in solido tra loro e in parti uguali, al pagamento delle spese di lite, liquidandole in euro 10.000, oltre accessori di legge" e dispone "la trasmissione degli atti alla procura presso la Corte dei Conti di Milano".

Secondo i giudici, ci doveva essere "un'effettiva apertura al mercato, ossia mediante una procedura svolta nel rispetto della trasparenza e del confronto competitivo tra gli operatori interessati, ossia dei principi interni ed eurounitari in materia di evidenza pubblica. Dovevano quindi essere rispettati i criteri di trasparenza, pubblicità e non discriminazione". "Emergono a chiare lettere la complessità e la molteplicità delle diverse attività dedotte nell'accordo – si legge ancora nella sentenza – che non è diretto alla semplice validazione di un prodotto finito, ma si articola nello sviluppo di un prototipo fornito dalla società, sulla base di una valutazione analitica e clinica, cui potrà seguire un ulteriore studio clinico per determinare le prestazioni diagnostiche conseguibili mediante un kit molecolare da sviluppare e, quindi, non ancora ultimato.

Insomma – rimarcano i giudici – oltre alle attività dirette a consentire il passaggio da un prototipo ad un prodotto finito, l'accordo ha ad oggetto altre attività, cui corrispondono specifiche obbligazioni della struttura pubblica, come mettere a disposizioni ulteriori campioni biologici, nonchè consentire l'utilizzo, nei suoi laboratori e tramite i suoi operatori, della particella virale, per eseguire esperimenti diretti a ottimizzare le prestazioni dei prodotti. Quindi la convenzione ha ad oggetto non solo le attività dirette a sviluppare dei prototipi, ma anche attività successive tese all'ottimizzazione delle prestazioni dei prodotti".

Nella sentenza viene sottolineato poi come "la previsione di un compenso quantificato in una percentuale del prezzo dei prodotti venduti su scala mondiale non ha alcuna correlazione con l'attività di mera testazione di un prodotto, specie se si considera che tale percentuale spetterà per ben 10 anni; non solo, il prezzo così individuato non è direttamente determinato, ma solo determinabile, ferma restando la previsione di un minimo dovuto pari a 20mila euro per anno e comporta per il Policlinico l'impossibilità di conoscere, a priori e con certezza, l'importo complessivamente ritraibile dal contratto".

Proseguono i giudici: "Una tale parametrazione del compenso non trova giustificazione causale in una prestazione di semplice validazione di un prodotto che, nella sua precisa delimitazione contenutistica, consente una certa quantificazione dei costi complessivi e, quindi, l'esatta parametrazione del corrispettivo; ne consegue che l'accordo non può essere ricondotto a quelli cui si riferisce l'art. 8, comma 5, del d.l.vo 2003 n. 288". La sentenza sottolinea inoltre "che il diritto interno ed eurounitario, secondo l'interpretazione della giurisprudenza amministrativa e della Corte di Giustizia Ue, impone ai soggetti pubblici, e più in generale agli organismi di diritto pubblico, di attivare procedure trasparenti e non discriminatorie di selezione della controparte contrattuale ogni qual volta decidano, come nel caso di specie, di offrire un'utilità suscettibile di trasformarsi in un'occasione di guadagno per gli operatori di un certo settore… e che, pertanto, devono essere assegnati sulla base di procedure competitive, che garantiscano la tutela della concorrenza, la parità di trattamento tra gli operatori stessi e la non discriminazione".

"La trasformazione degli Irccs in Fondazioni – si legge ancora – ha innescato una privatizzazione solo formale, che consente all'ente di perseguire le proprie finalità istituzionali mediante un'attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato, senza alterare, come chiarito dalla Corte, la natura propria di soggetto pubblico, chiamato a svolgere un pubblico servizio e una pubblica funzione, integrati da attività assistenziali di ricovero e cura degli infermi e da ricerca scientifica bio-medica, tanto che permane la competenza della Corte dei Conti per fatti di gestione ai sensi dell'art. 1 e 3 della L. n. 20 del 1994, poichè resta ferma la natura pubblica delle risorse finanziarie di cui l'ente si avvale (cfr. in argomento Cassazione civile, sez. un., 22 dicembre 2003, n. 19667; Tar Lazio, sez. III, 26 novembre 2007, n. 11749; Corte Cost. 2006 n. 422)".

Viene poi ricordato che "l'inquadramento della fattispecie nell'ambito del rapporto concessorio conferma quanto già evidenziato in ordine alla necessità per la Fondazione di individuare la controparte, ossia il concessionario, mediante una procedura ad evidenza pubblica di cui, però, non vi è traccia nel caso in esame. Procedura che impone la previa determinazione e pubblicazione dell'oggetto e degli elementi essenziali della concessione da affidare, compresa la relativa durata, trattandosi di un elemento decisivo ai fini della valutazione da parte dei potenziali concorrenti del loro interesse a partecipare alla gara".

Per i giudici, "i principi comunitari non possono essere elusi attraverso l'utilizzo di moduli convenzionali che, al di fuori del necessario confronto competitivo e della necessaria apertura al mercato, abbiano l'effetto di attribuire ad un operatore determinato una particolare utilità, formata da un complesso di beni sottoposto a vincolo di indisponibilità. In tale contesto, Diasorin ha acquisito un illegittimo vantaggio competitivo rispetto agli operatori del medesimo settore, perchè ha potuto contare in modo esclusivo sul determinante apporto di mezzi, strutture, laboratori, professionalità, tecnologie e conoscenze scientifiche messe a sua esclusiva disposizione dalla Fondazione".

Per il Tar "l'operato della Fondazione ha posto Diasorin in una posizione illegittimamente privilegiata rispetto agli altri operatori del mercato in cui opera, perchè le ha consentito di utilizzare risorse scientifiche e materiali, proprie del soggetto pubblico e indisponibili sul piano funzionale e giuridico, per produrre un quid novi da commercializzare. Ciò determina una distorsione della concorrenza, in quanto l'intervento del soggetto pubblico ha consentito ad un particolare operatore di utilizzare conoscenze, esperienze e mezzi che non sono accessibili a chiunque, con conseguente determinazione di un illegittimo vantaggio competitivo. Ne deriva la fondatezza anche della censura diretta a contestare la disparità di trattamento e l'alterazione della concorrenza nel mercato di riferimento".

La fondatezza delle censure esaminate, viene spiegato, "conduce all'accoglimento delle domande di annullamento, compresa quella relativa alla caducazione del contratto, in quanto la Fondazione San Matteo e Diasorin, seppure riferendosi formalmente ad un accordo di collaborazione scientifica, hanno dato vita ad un rapporto concessorio, illegittimamente costituito, con conseguente annullamento di tutti gli atti che compongono la fattispecie genetica del rapporto stesso".

Infine, "sotto altro profilo", il tribunale osserva che, "mediante l'accordo in questione e l'approvazione della proposta avanzata da Diasorin, la Fondazione San Matteo ha impegnato risorse pubbliche, materiali ed immateriali, con modalità illegittime, sottraendole, in parte qua, alla loro destinazione indisponibile".

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