Ha debuttato a Ragusa lo scorso fine settimana, nella preziosa cornice del teatro Donnafugata del quartiere barocco il dramma Eternity. Da un’idea di Turi Occhipinti e Gaetano Scollo, per la regia di Claudia Puglisi, in scena si sono sfidati Filippo Luna (il barone Louis de Cartier de Marchienne) e Silvia Scuderi (l’angelo della morte).
Il barone, uno dei due imputati dichiarati colpevoli nel processo Eternit (l’altro, per la cronaca, era Stephan Schmidheiny), deve rispondere alla giustizia non umana ma a quella superiore, di essersi rifiutato di pagare le provvisionali stabilite dal Tribunale di Torino in favore delle parti civili. Di fronte a lui, con enormi ali bianche ed un silenzio più greve di qualsiasi discorso, l’angelo della morte piombato con fragore dal tetto sfondato, sceso a giudicarlo e che lo condanna, senza appello, in una scena ieratica, ancestrale, quasi a volere sottolineare che in un luogo sacro come il teatro si riesce a punire il carnefice al contrario di quanto non è stato possibile fare nelle aule di un Tribunale. Lui è il barone Louis de Cartier de Marchienne.
Lo conosciamo bene. De Marchiene è solo uno dei molteplici nomi che è possibile attribuire al medesimo volto: quello dei predatori sazi, quello degli “eletti da Dio”, quello dei padroni della vita e della morte. Lei è la morte, l’angelo della morte. Tutti la conosceremo. È il nome che attribuiamo a voce bassa ai volti molteplici che talora osiamo immaginare. È donna ed è animale affamato, è mostro ibrido ed alato, è umanità inconsapevole e primordiale, è l’ irrazionalità dell’onniscienza divina. Loro sono Filippo Luna e Silvia Scuderi, unici interpreti dell’opera teatrale Eternity, un “monologo”, anche se in scena sono in due. Il loro è un “dialogo” che travalica i limiti della parola, i vincoli del testo, gli stilemi, i rituali e le astuzie della recitazione, e conquista diversi e molteplici nuovi territori semantici.
Un’interpretazione muscolare, carnale e sanguigna, potente e coinvolgente. Eternity è un’“opera di denuncia”, ma lo spettatore se ne accorge o se ne ricorda soltanto alla fine, quando la voce di un giudice elenca, leggendo una sentenza, i nomi di alcune delle innumerevoli vittime dell’avidità dell’uomo. Sono i nomi degli operai dell’industria dell’Eternit. Sono le vittime di quella polvere maledetta che piove, ininterrottamente, durante i cinquanta minuti di spettacolo, dal tetto della casa di de Marchienne, sfondato dalla caduta della sua nemesi alata. (Daniele Distefano)